Gli effetti delle riforme sulle pensioni degli ultimi anni hanno modificato anche le modalità per effettuarne il calcolo. Ecco in che modo si determina.
Il tasso di sostituzione è il rapporto percentuale fra la prima pensione e l’ultimo stipendio erogato prima del pensionamento del lavoratore. È un indicatore importante perché permette ai futuri pensionati di sapere in anticipo il loro potere d’acquisto.
Ma come si calcola e come si applica il tasso di sostituzione? E, soprattutto, come si rapporta alle forme si pensione anticipata, come Quota 102 e Opzione Donna?
Nel calcolo della pensione futura il contribuente deve prendere in considerazione una pluralità di elementi essenziali, che valgono per qualsiasi tipo di misura previdenziale. Per effettuare correttamente l’operazione, è essenziale il momento in cui ci si congeda dall’attività lavorativa. Questo per due requisiti, da valutare scrupolosamente:
La somma spettante finale, quindi, dipende da tali aspetti. Ad esempio, l’assegno avrà un importo inferiore nel caso di pensione anticipata con coefficiente di trasformazione minore o se sono presenti pochi contributi versati (magari perché la vita lavorativa ha subito interruzioni o vi è stata un’uscita precoce).
Per tali ragioni, è fondamentale che l’interessato valuti attentamente se è davvero conveniente il pensionamento anticipato.
Con le riforme delle pensioni degli ultimi anni, come la Dini o la Fornero, è stata avvertita grande preoccupazione per il tasso di sostituzione. Con le varie manovre ed interventi legislativi, infatti, vi è stata una considerevole diminuzione del tasso di sostituzione garantito dalla previdenza pubblica obbligatoria.
Infatti, tutti i lavoratori che stanno optando per una delle forme di pensione anticipata o che, semplicemente, stanno valutando di andare in pensione prima, hanno riscontrato una rendita previdenziale minore rispetto a quella dei loro colleghi che svelgono di lavorare più a lungo. Essi, dunque, hanno un tasso di sostituzione più basso.
La questione colpisce soprattutto i giovani, costretti a subire il passaggio dal vecchio sistema retributivo a quelli di calcolo contributivo.
Prima della Riforma Dini, era in vigore il sistema retributivo, che calcolava l’ammontare della pensione, a coloro che avessero 40 anni di contributi, essenzialmente sulla base della media degli ultimi stipendi percepiti, prima della fine del rapporto di lavoro.
Il sistema contributivo, invece, non fa altro che trasformare in pensione i contributi effettivamente versati. In tal modo, però, si favoriscono i lavoratori che hanno lavorato per più tempo e che hanno retribuzioni stabili. Contemporaneamente, si svantaggiano coloro che non hanno lavorato stabilmente ed i precari, coloro che sono costretti a lunghi periodi di disoccupazione, gli autonomi e chi si congeda in anticipo, insomma le categorie di lavoratori che, attualmente, sono le più numerose.
In seguito alla Riforma Dini, inoltre, è stata abolita l’integrazione al trattamento minimo per chi ha iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995. Secondo le stime realizzate dalla Ragioneria dello Stato, la conseguenza di tutto ciò sarà un significativo calo del tasso di sostituzione all’età della vecchiaia nei futuri anni. Dunque, per favorire una sua risalita ed assicurare una pensione almeno del 70% rispetto all’ultimo stipendio percepito, sarà necessario, in futuro, che i lavoratori maturino un numero maggiore di anni di contributi. Anche applicando tale rimedio, tuttavia, gli autonomi e i commercianti saranno i più svantaggiati, rispetto ai dipendenti.
Una soluzione per cercare di assicurare una posizione paritaria tra le varie categorie di lavoratori, potrebbe essere la previdenza complementare. Nel nostro Paese, però, è ancora poco diffusa, nonostante la legge preveda delle agevolazioni fiscali per i contribuenti che svelgono di investire nei Fondi pensione. Nello specifico, sono previsti:
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