Secondo recenti studi, l’analisi di una particolare proteina e l’incidenza del gruppo sanguigno potrebbero essere usati per prevenire l’insorgere dell’Alzheimer.
La malattia, che come sappiamo è neurodegenerativa, colpisce milioni di persone in tutto il mondo ogni anno. Tra le varie metodologie usate per prevenire, diagnosticare e curare l’Alzheimer, oggi abbiamo una conoscenza in più. Un interessante studio è stato pubblicato su Nature Communications e ci svela incoraggianti prospettive.
Ma cosa c’entrano la ferritina e il gruppo sanguigno? Partiamo dal primo elemento, ovvero la ferritina. Una ricerca ha individuato questa proteina come potenziale marcatore per “misurare” l’Alzheimer. Stando agli scienziati, infatti, un alto livello di ferritina nel cervello concorre a sviluppare maggiormente la malattia. Di solito questa proteina si trova nel fegato, nella milza, nel midollo osseo e nei tessuti scheletrici. I test condotti dal team dell’Università di Melbourne hanno dimostrato la correlazione con l’Alzheimer.
La ricerca ha coinvolto circa 300 persone, in un raggio di tempo di almeno 7 anni. Lo scopo, durante questo tempo, era quello di “verificare l’esistenza di biomarcatori legati alla comparsa e alla progressione di alcune forme di demenza, in particolare proprio l’Alzheimer.”
Da questo lungo lavoro è emerso che “più alti sono i livelli di ferritina cerebrale, peggiore è la prognosi clinica.” Sembra addirittura che la correlazione sia così stretta che misurare questi livelli potrebbe bastare da sé a capire come e quanto evolverà l’Alzheimer nei pazienti.
Oltre a questi parametri, è stata trovata un’ulteriore correlazione con lo sviluppo della malattia. Che ricordiamo al momento interessa solamente in Italia circa 600 mila persone. Il nostro Paese è tra quello con maggior incidenza, sicuramente per il fatto che vantiamo una popolazione sempre più anziana.
Anche il gruppo sanguigno è stato preso in considerazione per capire meglio l’evoluzione dell’Alzheimer e soprattutto come curarlo. C’è uno studio condotto dal team dell’ospedale San Camillo di Venezia e del dipartimento di neuroscienze della Sheffield University pubblicato su “Brain Research Bulletin” . Sembra proprio che anche i gruppi sanguigni siano collegati alla malattia. In particolare, è stato rilevato che “gli individui di gruppo 0 sono più protetti, perché più ricchi di materia grigia.”
Siamo comunque ancora lontani dal trovare il giusto “match” tra marcatori e sviluppo della malattia neurodegenerativa. Ma la ricerca continua e la speranza è che in un futuro non troppo lontano si possa comprendere meglio le probabilità di ammalarsi di Alzheimer. In questo modo si potranno attuare in tempo i primi interventi curativi.
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