Le lavoratrici pubbliche che non hanno contributi in alcuni anni non potrebbero accedere ad Opzione Donna. Perché?
Le iscritte alla Gestione pubblica che non hanno contributi tra il 1993 ed il 1995, non possono andare in pensione con Opzione Donna.
Opzione Donna è un utile strumento di flessibilità in uscita, ma riserva delle insidie al momento del calcolo dell’assegno spettante. Il sistema adottato, infatti, è quello contributivo puro e, dunque, comporta una netta riduzione della cifra. Nello specifico, maggiori contributi possiede la lavoratrice prima del 1996, più elevata è la perdita sull’importo. È questo, dunque, il sacrificio da affrontare per smettere di lavorare con circa 9 anni di anticipo.
La normativa presenta, inoltre, della problematiche per le dipendenti pubbliche. In molti casi (soprattutto quelli della Gestione INPDAP), il calcolo dell’assegno non può essere effettuato e, di conseguenza, l’INPS rigetta le richieste. Scopriamo qual è la causa di tale inconveniente.
Consulta anche il seguente articolo: “Pensione Opzione donna confermata anche per il 2023 ma cresce la penalizzazione“.
Lo strumento di pensione anticipata riservato alle donne è stato inserito con la Legge Maroni del 2004, come misura solo sperimentale. Uno dei vantaggi è il basso costo per le casse dello Stato, perché l’ammontare dell’assegno è anticipato quasi interamente dalle stesse lavoratrici, tramite il ricalcolo contributivo della prestazione. Inoltre, le donne hanno maggiore necessità di andare in pensione prima, soprattutto per dedicarsi alla cura della famiglia.
Sono questi i motivi principali per cui la misura è stata sempre prorogata finora; l’ultimo rinnovo è avvenuto proprio con la Legge di Bilancio 2023.
Per quanto riguarda i requisiti, le lavoratrici dipendenti possono andare in pensione a 58 anni di età, mente le autonome a 59 anni, con 35 anni di contribuzione. Considerando che la pensione di vecchiaia si raggiunge con un’anzianità anagrafica di 67 anni e che alla pensione anticipata le donne accedono con 41 anni e 10 mesi di versamenti, Opzione Donna consente uno sconto di circa 9 anni o di 6 anni e 10 mesi, a seconda dei casi.
Questo vantaggio, però, è controbilanciato dal ricalcolo contributivo dell’assegno. Le lavoratrici che possiedono più di 18 anni di contributi prima del 1996, per le quali dovrebbe applicarsi il calcolo misto della prestazione, in realtà, subiscono una penalizzazione di circa il 30% della pensione spettante.
Non perdere il seguente approfondimento: “Pensione Opzione Donna e contributi: le alternative poco conosciute che non fanno perdere l’assegno“.
Un problema non di facile soluzione riguarda, purtroppo, le lavoratrici iscritte alla Gestione pubblica. Coloro che non hanno versamenti previdenziali nel triennio 1993-1995, infatti, non possono usufruire di Opzione Donna.
La questione ha a che fare con il sistema di calcolo della prima quota di pensione, cioè quella retributiva da trasformare in contributiva. Per i periodi posteriori al 1995, che rientrano automaticamente nel sistema contributivo introdotto nel 1996 dalla Riforma Dini, problematiche non sorgono.
Il sistema contributivo prevede che, nel montante dei versamenti necessari per la determinazione dell’assegno, vanno inclusi anche quelli che rientrano nel meccanismo retributivo, cioè quelli precedenti il 1996.
La prestazione pensionistica, dunque, scaturisce dalla somma di due quote: una “classica” (relativa ai periodi dopo il 1996), per la quale si applica pacificamente il sistema contributivo, un’altra, invece, formata dai periodi retributivi, che devono essere calcolati col meccanismo contributivo e rientrare nel montante.
Questa regola non crea disagi per le lavoratrici del settore privato. Per le dipendenti pubbliche, al contrario, potrebbero esserci delle problematiche. Il periodo di riferimento, infatti, è il triennio 1993-1995; cosa accade se, in questi anni, le lavoratrici non possiedono versamenti previdenziali? In tal caso, l’INPS rigetta la domanda di pensione con Opzione Donna. Per quale motivo?
Il problema è che al quota di pensione retributiva che deve essere tramutata in contributiva, non può essere calcolata, perché l’INPDAP, fino al 1992, non trasmetteva i dati retributivi per la determinazione della pensione. Di conseguenza, non è possibile calcolare la quota di trattamento relativa alla carriera previdenziale maturata fino al 31 dicembre 1995.
Si tratta di un problema grave, che, ad esempio, coinvolge chi ha lavorato nella P.A prima del 1993, ma non nei 3 anni successivi.
Di recente, è stata confermata la proroga di Opzione Donna anche per il 2023, ma con delle innovazioni molto importanti.
In base a quanto stabilito nella nuova Legge di Bilancio, ci sarà, innanzitutto, un incremento del requisito anagrafico per l’accesso alla misura. Dal prossimo anno, infatti, le lavoratrici potranno smettere di lavorare sempre con 35 anni di contribuzione, ma con 60 anni di età. Solo nel caso in cui abbiano uno o 2 o più figli, potranno accedere ad Opzione Donna a 59 o 58 anni.
Questa novità è stata abbastanza criticata. In molti, infatti, la ritengono altamente discriminante, perché, di fatto, avvantaggerebbe solo le donne con figli. Il Governo ha risposto a tali osservazioni, sottolineando come, alla base della Riforma, ci sia, in realtà, la volontà di garantire una maggiore tutela alle lavoratrici madri e dare dignità al lavoro domestico e familiare.
Secondo i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, infatti, nel 2021, circa 38 mila lavoratrici hanno abbandonato il lavoro durante i primi 3 anni di vita dei figli. Opzione Donna, quindi, avrebbe come scopo il superamento di queste disuguaglianze.
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