I contributi maturati rivestono un ruolo primario nel calcolo della pensione. Senza aver versato una certa contribuzione non si potrà lasciare il lavoro e non si potrà contare su un assegno dignitoso.
Il sistema pensionistico italiano è strettamente collegato al numero di contributi maturati da quando è stata introdotto la Riforma Dini.
Una lettrice ha posto un quesito: “Ho 30 anni di contributi e ho compiuto 60 anni. Sono diciannove anni che stiro in un centro anziani e non ce la faccio più dato che ho l’artrosi alle mani. Perché non posso andare in pensione per gli anni di lavoro maturati lasciando così il posto ad una persona giovane?“
La domanda racchiude diversi interrogativi senza risposta nel sistema pensionistico italiano. Tutto ruota intorno ai contributi e ai soldi. Se tante persone andassero in pensione molto giovani, ad esempio 60 anni, lo Stato si ritroverebbe a dover sborsare troppi assegni pensionistici che, ricordiamo, sono pagati con i soldi dei lavoratori. E in Italia non ci sono così tanti giovani occupati tali da garantire fiumi di baby pensionamenti. Eppure qui entro in gioco il paradosso.
Più i lavoratori sono costretti a ritardare il pensionamento meno posti di lavoro ci saranno per i giovani che entreranno sempre più tardi nel mondo del lavoro. Non solo, l’innovazione tecnologica e digitale rallenta dato che chi è nato tra computer e web non può prendere il posto di chi è poco avvezzo alla tecnologia. Ma ritorniamo alla domanda della lettrice, i 30 anni di contribuzione non sono sufficienti al pensionamento.
Contributi e pensione, l’importanza degli anni di lavoro
Sessant’anni di età e trent’anni di contribuzione non sono sufficienti per accedere a forme di pensionamento anticipato. Opzione Donna richiede 35 anni di contributi – ed è riservata a caregiver, invalide al 74%, disoccupate – mentre l’APE Sociale necessita di 63 anni di età e 30 o 36 di contribuzione ma solo se si è caregiver, invalidi, disoccupati o addetti a mansioni gravose. Altri scivoli pensionistici richiedono molti più anni di contributi – 41 per la pensione per precoci e Quota 103 e 41 anni e dieci mesi se donne e 42 anni e dieci mesi se uomini per la pensione anticipata ordinaria. L’unica soluzione per la lettrice sarebbe quella di considerare le tre deroghe Amato e verificare di possedere i requisiti per andare in pensione con soli 15 anni di contributi.
Ma la retribuzione conterà qualcosa? Quando entra in gioco il sistema di calcolo puramente contributivo la variabile che più conta è proprio quella dei contributi. Il nuovo meccanismo di calcolo è stato introdotto nel 1995 con la Riforma Dini facendo largo ad un regime che non accontenta i lavoratori. A parità di anni di lavoro e stipendi, infatti, il lavoratore che potrà calcolare l’assegno con sistema retributivo avrà un importo più cospicuo rispetto a chi rientra nel sistema contributivo. Scopriamo perché.
Sistema di calcolo contributivo, retributivo e misto
Per calcolare la pensione occorre distinguere i contributi maturati entro il 31 dicembre 1995 e quelli versati dal 1° gennaio 1996. I lavoratori con almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 possono contare sul sistema retributivo – con limitazione oggi all’anzianità acquisita entro il 31 dicembre 2011. Significa poter conteggiare le retribuzioni degli ultimi anni di lavoro e applicare un valore del 2% ad ogni anno lavorativo.
I lavoratori con meno di 18 anni di contributi alla data spartiacque possono approfittare del sistema di calcolo misto – retributivo fino al 31 dicembre 1995 e contributivo dal 1° gennaio 1996. Più alto sarà il numero dei contributi maturati dopo il 1995 maggiore sarà la perdita sull’assegno pensionistico.
Infine, i nuovi assunti dal 1° gennaio 1996 (e coloro che scelgono particolari scivoli pensionistici come Opzione Donna) dovranno calcolare la pensione con sistema contributivo puro.
Esempio di calcolo della pensione in base ai contributi
I contributi di riferimento – quelli legati all’iscrizione ad un ente pensionistico previdenziale nel momento in cui si inizia un’attività lavorativa – concorreranno alla formazione della pensione, dunque, seppur opportunamente rivalutati. L’accantonamento annuale – siamo all’interno del sistema contributivo – è del 33% per i dipendenti e del 25% per gli autonomi. In questo modo si definirà il capitale versato a cui applicare un tasso legato all’inflazione e al PIL per calcolare il montante contributivo ossia la somma rivalutata dei versamenti effettuati. Si procederà, poi, con l’applicazione del coefficiente di trasformazione – varia in base all’età di pensionamento – per determinare la pensione annuale. Dividendo per 13 mensilità si determinerà l’importo mensile dell’assegno. Più si ritarderà il pensionamento più contributi si matureranno è più alto sarà l’assegno pensionistico.
Poniamo il caso di un lavoratore dipendente che ha iniziato a lavorare a 27 anni con retribuzione annua di 15 mila euro. Accantonerà il primo anno 4.950 euro (ossia il 33% di 15 mila euro), il secondo 5.115 (ossia il 33% di 15.500 euro) e così per gli anni in avvenire. Ipotizziamo che dopo 40 anni di lavoro – e dunque raggiunta l’età della pensione di vecchiaia (67 anni) – abbia accumulato 300 mila euro di valore già capitalizzato. Il coefficiente di trasformazione sarebbe del 5,72% (percentuale prevista per il 2023) e la pensione annua di 17.160 euro lordi. Al mese, dunque, si percepirebbe un assegno di circa 1.320 euro lordi.