Legittimo il licenziamento del dipendente sindacalista che usa parole offensive e volgari sui social per denigrare la società datrice.
Attenzione a ciò che dici sui social nei confronti della società datrice, e ciò anche se sei un sindacalista: infatti si rischia il licenziamento per giusta causa per offese e superamento dei limiti di quella che i giudici chiamano ‘continenza verbale’.
Con queste parole può essere sintetizzato il contenuto di una recente ordinanza della Cassazione, che mette in guardia nei casi di offese via internet al capo. Ecco qualche ulteriore dettaglio.
Dipendente con funzioni di sindacalista licenziato: il caso deciso dalla Cassazione
Nei social network i dipendenti con funzioni di rappresentanza sindacale non possono parlare a ruota libera delle aziende con cui si relazionano per ragioni di lavoro, altrimenti il rischio concreto è quello di essere cacciati. Anzi per la Suprema Corte è da ritenersi legittimo il recesso datoriale esercitato verso chi, sul web e pubblicamente, abbia rivolto pesanti accuse e commenti poco ‘gentili’ al datore di lavoro – e ciò senza prove a sostegno.
Un’ordinanza della Cassazione di alcune settimane fa, la n. 35922 di dicembre, infatti esprime il seguente principio: neanche un sindacalista che si giustifichi con l’esercizio delle proprie funzioni a tutela dei lavoratori, può superare i limiti – anche di continenza verbale – collegati all’esercizio libero del diritto di critica verso l’azienda datrice.
In particolare, nel corso del procedimento giudiziario era emerso che:
- al dipendente con compiti di rappresentante sindacale erano stati rimproverati, a livello disciplinare, alcuni commenti diffusi via Facebook e dunque accessibili pubblicamente a tutti gli utenti
- detti commenti avevano un tono arbitrario, volgare e sproporzionato rispetto al contesto della critica alla società datrice, di fatto ledendo sia l’immagine che il prestigio dell’azienda e di coloro che vi lavorano
La posizione della Cassazione
Il lavoratore subordinato con funzioni di rappresentanza sindacale era stato licenziato per giusta causa. Al fatto seguì l’impugnazione del recesso e il conseguente giudizio. Il sindacalista rivendicò di aver agito in conformità alla legge ed anzi accusò la società datrice di essere stato punito ingiustamente e in modo discriminatorio, tenuto conto delle funzioni tipiche di chi svolge attività sindacale.
Ebbene, secondo la Cassazione:
- il diritto di critica, anche pungente ed aggressiva, nei confronti del proprio datore di lavoro deve essere sempre assicurato per esplicita norma di Costituzione
- ma detta critica – rimarca la Corte – non può comunque assumere la forma di affermazioni non provate e, al contempo, dannose sul piano della reputazione, della morale e del decoro dell’azienda nel suo complesso
Ciò vale anche qualora a criticare così pesantemente sia un sindacalista, che dunque non potrà avvalersi della propria qualifica come scriminante.
Concludendo, vero è dunque che anche l’esercizio dell’attività sindacale e del diritto di critica vanno ricondotti sempre a quella correttezza formale che consente di rispettare la dignità umana e i diritti e le libertà altrui, anch’essi garantiti dalla nostra Costituzione. Ecco perché la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa.